Venerdì sera mi sono aggregato ad un gruppo di manifestanti.
Uscito dal laboratorio con una fastiodiosa pioggia gelida e vento battente che spezzava in due gli ombrelli. Sento una musica di banda provenire da Bailey Hall, il teatro che sta nel mezzo del campus. Musica forte e ritmata, e luci rossi diffuse dall’umidità. Un faro proietta a mo’ di batsegnale il logo dell’università sulla parete dello Space Building. Mi avvicino alla folla che occupa il centro della piazza: sulle prime pensavo stessero assistendo all’esibizione della banda che staziona sotto la pioggia sulle scalinate dell’edificio. Mi rendo conto che molti dei ragazzi hanno dei volantini in mano, e la bocca chiusa con una strisciata di scotch. Formano un corridoio attraverso il quale signori e signore ben vestiti sfilano rapidamente per entrare nel teatro. Ogni tanto, quando la musica tace, si sente la protesta “student voice is not a choice!”, ma subito viene coperta dal successivo brano.
Chiedo le ragioni della protesta, ma non comprendo bene: sembra che al direttore di uno studentato sia stato dato il belservito che non si meritava.
Rimango silenzioso sotto la pioggia con il mio ombrello, affascinato dal contrasto tra la pioggia oscura nella quale i manifestanti stazionano e le calde luci del teatro, tra i vestiti eleganti e gli abiti alternativi, tra i cori di protesta e la musica della banda.
Un ragazzone nero e silenzioso con un cartello fradicio mi chiede di coprirlo con l’ombrello “non per me, ma per la scritta” e poi rimane silenzioso a guardare i passanti, mentre tento di estorcegli qualche altra parola. gli spettatori della serata arrivano con pullman che si alternano ai due lati della piazza: ad ogni nuovo pullman il corridoio si sposta: qualche signora in pelliccia dice “grazie”, mentre si affretta versi l’ingresso, qualcun’altro invece invita ad andare a dormire. Scopro che sono i donatori dell’università, filantropi o ex cornelliani a cui il rettore cercherà di spillare più soldi possibile in tempo di crisi.
Alla fine i pullman terminano, la banda tutto allegra, benché bagnata, si disperde al ritmo degli xilofoni e dei tamburi. Il manipolo di manifestanti si assesta sui gradini ed inizia a gridare i propri discorsi. “Non possono mandarci via..” “Devono ascoltarci” “Questa gradinata è nostra”: se prima la scena era uggiosa e deprimente, in questo momento il tutto assume un colore ridicolo. Personaggi estremamente afro prendono la parola, esortando alla protesta permanente. Avverto tra la 40ina di persone presenti un vago scetticismo. Al che un tizio prende la parola e ribalta la situazione. “Anche noi, associazione studentesca taldeitali, stiamo discutendo di questi problemi: non appena abbiamo sentito della vostra protesta, abbiamo interrotto la nostra riunione e ci siamo uniti, ma adesso, perchè non andiamo nell’auditorium e ne parliamo assieme?”. Ad un posto caldo non si rinuncia mai, e senza discussione (a parte una tardiva approvazione del leader della protesta) ci si dirige verso l’edificio di Arte.
Mentre cammino chiacchiero con Jay Bro (nero e rasta), al quale chiedo se è direttamente coinvolto dalla faccenda, lui mi risponde “no, sono un artista che è venuto qua per fare una performance, perchè ogni volta che qualcuno protesta per la propria libertà bisogna aiutarlo: non sai mai quando la tua libertà sarà messa  in discussione”.
Scopro poi che JB e sua moglie sono il pezzo forte della serata, e li ascolto cantare inni hiphop contro la discriminazione razziale e il colonialismo imperante, a favore della diversità e del ghetto. Perchè senza accorgermene, mi sono aggregato ad una protesta organizzata dalle associazioni afro-latinos di west campus, una protesta dalla forte caratterizazione razziale, ed in effetti, guardandomi attorno, scopro di essere io la minoranza caucasica (a parte un paio di alternative coppie con bimbino al seguito, tipica fauna del downtown di ithaca).
Alla fine, come da copione, abbandono l’auditorium prima del dibattito.

Mi sono aggregato ad un gruppo di manifestanti.

Uscito dal laboratorio con una fastiodiosa pioggia gelida e vento battente che spezzava in due gli ombrelli. Sento una musica di banda provenire da Bailey Hall, il teatro che sta nel mezzo del campus. Musica forte e ritmata, e luci rossi diffuse dall’umidità. Un faro proietta a mo’ di batsegnale il logo dell’università sulla parete dello Space Building. Mi avvicino alla folla che occupa il centro della piazza: sulle prime pensavo stessero assistendo all’esibizione della banda che staziona sotto la pioggia sulle scalinate dell’edificio. Mi rendo conto che molti dei ragazzi hanno dei volantini in mano, e la bocca chiusa con una strisciata di scotch. Formano un corridoio attraverso il quale signori e signore ben vestiti sfilano rapidamente per entrare nel teatro. Ogni tanto, quando la musica tace, si sente la protesta “student voice is not a choice!”, ma subito viene coperta dal successivo brano.

Chiedo le ragioni della protesta, ma non comprendo bene: sembra che al direttore di uno studentato sia stato dato il belservito che non si meritava.

Rimango silenzioso sotto la pioggia con il mio ombrello, affascinato dal contrasto tra la pioggia oscura nella quale i manifestanti stazionano e le calde luci del teatro, tra i vestiti eleganti e gli abiti alternativi, tra i cori di protesta e la musica della banda.

Un ragazzone nero e silenzioso con un cartello fradicio mi chiede di coprirlo con l’ombrello “non per me, ma per la scritta” e poi rimane silenzioso a guardare i passanti, mentre tento di estorcegli qualche altra parola. gli spettatori della serata arrivano con pullman che si alternano ai due lati della piazza: ad ogni nuovo pullman il corridoio si sposta: qualche signora in pelliccia dice “grazie”, mentre si affretta versi l’ingresso, qualcun’altro invece invita ad andare a dormire. Scopro che sono i donatori dell’università, filantropi o ex cornelliani a cui il rettore cercherà di spillare più soldi possibile in tempo di crisi.

Alla fine i pullman terminano, la banda tutto allegra, benché bagnata, si disperde al ritmo degli xilofoni e dei tamburi. Il manipolo di manifestanti si assesta sui gradini ed inizia a gridare i propri discorsi. “Non possono mandarci via..” “Devono ascoltarci” “Questa gradinata è nostra”: se prima la scena era uggiosa e deprimente, in questo momento il tutto assume un colore ridicolo. Personaggi estremamente afro prendono la parola, esortando alla protesta permanente. Avverto tra la 40ina di persone presenti un vago scetticismo. Al che un tizio prende la parola e ribalta la situazione. “Anche noi, associazione studentesca taldeitali, stiamo discutendo di questi problemi: non appena abbiamo sentito della vostra protesta, abbiamo interrotto la nostra riunione e ci siamo uniti, ma adesso, perchè non andiamo nell’auditorium e ne parliamo assieme?”. Ad un posto caldo non si rinuncia mai, e senza discussione (a parte una tardiva approvazione del leader della protesta) ci si dirige verso l’edificio di Arte.

Mentre cammino chiacchiero con Jay Bro (nero e rasta), al quale chiedo se è direttamente coinvolto dalla faccenda, lui mi risponde “no, sono un artista che è venuto qua per fare una performance, perchè ogni volta che qualcuno protesta per la propria libertà bisogna aiutarlo: non sai mai quando la tua libertà sarà messa  in discussione”.

Scopro poi che JB e sua moglie sono il pezzo forte della serata, e li ascolto cantare inni hiphop contro la discriminazione razziale e il colonialismo imperante, a favore della diversità e del ghetto. Perchè senza accorgermene, mi sono aggregato ad una protesta organizzata dalle associazioni afro-latinos di west campus, una protesta dalla forte caratterizazione razziale, ed in effetti, guardandomi attorno, scopro di essere io la minoranza caucasica (a parte un paio di alternative coppie con bimbino al seguito, tipica fauna del downtown di ithaca).

Alla fine, come da copione, abbandono l’auditorium prima del dibattito.